Cosa resterà dopo il coronavirus?

“…noi vorremmo sapere… per andare dove dobbiamo andare… per dove dobbiamo andare? Sa, è una semplice informazione”.

Dal film “Totò, Peppino e la malafemmina”

Perdonatemi se in un momento così difficile per il nostro paese mi permetto di intitolare questa riflessione con la battuta un po’ ironica tratta da un famoso film. Ma l’uomo è l’unico essere vivente in grado di sorridere; gli animali non lo fanno.

Il sorriso nasce quando intravediamo un orizzonte, una strada, un cammino da fare in compagnia, insieme ad altri. Per camminare insieme occorre incrociare i nostri sguardi e condividere “ciò che ci spinge” (1 Cor. 9,24-27; 2 Cor 5,14; Fil. 3,8). Pertanto, cari fratelli e sorelle, per incoraggiarci a continuare il nostro cammino come comunità, vorrei condividere con voi qualche riflessione sulla situazione che stiamo vivendo, lasciandoci guidare da due domande ed una esortazione.

Cosa fa emergere il momento presente?

Credo che tutti noi, nei primi giorni, abbiamo fatto fatica a metabolizzare la situazione. Abbiamo vissuto la stessa sensazione di chi perde un familiare: sul momento non riusciamo a realizzare, non ci sembra possibile.

Poi la dura realtà: e ci sentiamo vuoti e precari.

Il vuoto: il cristianesimo ci rivela che Dio crea dal nulla. Nella creazione, solo l’uomo “sente” il nulla: la scimmia, il cane, la mucca, sentono la morte nel momento in cui la vivono, ma non si pongono il problema della morte, del nulla mentre sono in vita: noi sì.

Per questo motivo facciamo di tutto per cercare di dare un senso allo “stato” (la morte) che percepiamo, giustamente, “contro natura”: cerchiamo di dare un senso alla morte dando significato alla vita.

Ma la vita è imprevedibile: ogni tanto cambia il gioco e noi ci ritroviamo con le scartine in mano.

Forse abbiamo cercato di dare senso alla nostra storia con le cose che facciamo ed abbiamo: ma quando tutto crolla, crolla anche il nostro “senso”.

Questo ci dimostra che il senso non è possibile “crearlo”: possiamo solo riceverlo.

Un giorno gli esseri umani arriveranno a fare cose che per noi oggi sono inimmaginabili, così come per gli antichi tutto ciò che ora viviamo era ritenuto impossibile. L’unica cosa che non potremo mai fare è rispondere alle domande: Perché esisto? Da dove vengo? Dove vado? Che in fondo sono un’unica domanda declinata in molti modi: Che senso ha la mia vita? “Senso” va inteso nella sua duplice accezione, per cui solo quando capisco il significato della mia esistenza, posso orientarmi verso una meta.

La natura, ogni tanto, si “organizza” per farci fermare e farci porre questa domanda. In tali momenti ci rendiamo conto che l’unica cosa che dà senso alla vita, cioè significato e orientamento, sono le relazioni: avere buone e significative relazioni. La natura è bella perché la vita che la manifesta è un’armonia di relazioni.

E che abbiamo bisogno di buone relazioni ci rendiamo conto, concretamente, quando viviamo il “limite”, che è la nostra condizione ontologica: siamo creature, per quanto abili manipolatori, ma non il “Creatore”.

Così la vita si assume periodicamente il compito di riportarci con i piedi per terra, ricordandoci che siamo naturalmente precari. Finché non avremo imparato ad accogliere il nostro limite e a viverlo bene, continueremo ad essere individui e non persone. Gli individui si fanno la guerra, le persone collaborano. Una “comunità di individui” è un ossimoro: è “dire tutto ed il contrario di tutto” nello stesso momento.

E questo è uno degli effetti benefici della globalizzazione; oramai non possiamo più scherzare: o impariamo a collaborare, a stare insieme, o saltiamo tutti.

Quindi, cosa fa emergere il momento presente? Che io, senza te, non esisto. L’individuo non esiste, esiste la persona: noi esistiamo solo in quanto relazione. Per noi cristiani questa non è una novità: è ciò che ci viene rivelato nella Trinità, il cui cuore, il “motore”, è la relazione.

Cosa rimarrà dopo il coronavirus?

Noi esseri umani tendiamo facilmente a dimenticare: “Passata la festa, gabbato lo santo”.

Ma oramai siamo arrivati al limite, non possiamo più farlo, scaricando, tra l’altro, sulle future generazioni i nostri problemi. “Il tempo si è fatto breve” (1 Cor 7,29): la crisi ecologica, la possibilità che altri virus vengano a farci visita, l’aumento delle armi nucleari disponibili in più nazioni, etc …, ci dicono che “ora” dobbiamo darci una mossa. Ne va della nostra sopravvivenza.

Ognuno di noi, quando si rende conto di tutto ciò, si sente inerme: cosa possiamo fare? Il problema sembra più grande delle nostre reali possibilità di poter incidere per innescare un possibile cambiamento.

E di fatto, se affrontiamo la situazione con una mentalità a due dimensioni, di causa ed effetto, ponendoci al centro della scena, ci condanniamo alla disperazione, etimologicamente “non riusciamo ad orientarci verso nessun obiettivo”.

Ma il cristiano ha una terza dimensione: la “riserva escatologica”. Il suo sguardo va oltre “l’orizzonte delle possibilità”. Ha un compito “epifanico”, di svelamento: ci si svela il senso delle cose perché siamo “teofori”, o, ancor più precisamente, “cristofori”.

Il nostro compito è svelare la cristificazione inarrestabile dell’universo.

Con la nostra vita possiamo testimoniare che “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal. 2,20). La redenzione del creato, con l’incarnazione di Cristo, è un dato di fatto, che non dipende da noi. Noi siamo solo i testimoni di un processo di redenzione che attende il nostro “sì”, come Maria. Dicendo i nostri “sì”, in modo particolare quando recitiamo il Padre nostro “venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà”, noi, ora, rendiamo possibile la cristificazione dell’universo e il suo cambiamento, che Dio continuamente opera attraverso il Figlio Gesù e i figli che siamo noi. E tutto questo è reso manifesto quando “celebriamo” l’Eucarestia ed “innalziamo” il calice dicendo: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli.”

Il nostro compito non è “fare cose”, ma, attraverso l’azione, svelare il senso (nel suo duplice significato) delle cose, della vita, senso che accogliamo sempre e costantemente come rivelazione: dobbiamo cercare, per quanto è nelle nostre possibilità, di essere dei vetri puliti: attraverso di noi passa la Luce nel mondo. Il compito che abbiamo è pulire il nostro vetro: in questo c’è la nostra personalissima azione. Possiamo anche creare pregiate vetrate artistiche, ma è sempre la luce ad illuminare, non noi. Noi abbiamo solo il compito di farla passare.

Allora capiamo che in Dio, possiamo tutto: anche dare un bicchiere d’acqua, in questo orizzonte di significato, può innescare il cambiamento del mondo.

Ma attenzione ad un facile irenismo: il bicchiere d’acqua che sono chiamato a dare ha bisogno di un corretto uso delle risorse. Se le risorse, che il Creatore ha dato a tutti gli uomini, sono in mano a pochi individui, come potrò dare un bicchiere d’acqua? forse non l’ho neanche per me! Qui c’è il grande problema antropologico, che poi diventa politico e nella nostra società, anche economico, della dignità dell’uomo: purtroppo, politicamente, si è attentato e si continua ad attentare a questa dignità, in buona e cattiva fede.

Pertanto, a mio parere, dopo il Coronavirus, abbiamo l’urgenza di rispondere a questa domanda: “che cosa è umano?” e, di conseguenza, “cosa non lo è?”. Cosa favorisce la ricerca di senso nella nostra vita e cosa la sfigura? Dopo aver trovato la risposta, dobbiamo agire di conseguenza, con tempestività, decisione e determinazione. In questo, credenti, non credenti e diversamente credenti, abbiamo insieme un grande, bello ed entusiasmante lavoro da fare.

Riprendiamo il cammino.

Dopo il Coronavirus, riprenderemo il cammino: l’uomo ha vissuto momenti più drammatici nella sua esistenza. Dal 1900 al 1945 gli italiani sono passati attraverso quattro guerre, due coloniali e due mondiali, ed una pandemia, la spagnola, e ne siamo usciti ogni volta. Ne usciremo anche ora, un po’ malconci, ma ne usciremo. La cosa importante è imparare dalle sofferenze: le sofferenze, sono per l’uomo, purtroppo, un modo per sciogliere il suo cuore indurito e permettere “a ciò che verrà” di essere accolto.

Cari fratelli e sorelle, occorre una rivoluzione, non in senso violento, ma nel senso etimologico della parola, che dobbiamo necessariamente fare se non vogliamo soccombere: rivolgiamo le nostre cattive abitudini e ritorniamo a ciò che più ci parla nel nostro cuore, la fraternità e la bellezza, accogliendo il nuovo che attende di essere ospitato anche da noi. Passiamo dalla “paranoia”, questo pensiero confuso ed inconcludente in cui viviamo, che nasce da individui pieni di paura, alla “metanoia”, un pensiero relato ed empatico, aperto al futuro.

Per attuare questa rivoluzione il nostro Borgo ha tante energie da mettere in gioco.

La parrocchia, la comunità delle suore Cistercensi, il centro anziani, la Domusculta Sessana, il campo sportivo, le scuole materne, elementari e medie, la stazione dei carabinieri, i nostri commercianti ed artigiani e le attività produttive, le tante iniziative spontanee che periodicamente vi sorgono, ci dicono di un grande desiderio e di una grande capacità creativa.

Sì, abbiamo tutte le risorse per creare un piccolo anticipo del paradiso, nell’attesa di quello che ci verrà definitivamente donato: dobbiamo solo organizzarci, fare corpo.

La “buona vita” vincerà quando sarà in grado di organizzarsi come, mi si passi l’esempio, la “mala vita organizzata”.

La corruzione politica e sociale, il “liberismo economico”, la mafia, la camorra, etc… sembrano vincenti perché si organizzano, ma di fatto hanno i piedi d’argilla, sono degli “aborti viventi”: possono solo sprofondare in un buco nero ed infinito, e noi con loro, se non li contrastiamo.

La “buona vita”, a prescindere dalla confessione religiosa, dalla sensibilità umana e culturale, invece continuerà ad essere perdente finché non “farà corpo”.

Qual è il contributo che noi cristiani possiamo apportare per innescare questo processo virtuoso? Per quanto ci riguarda, per riassumere con un’immagine che credo sia efficace, dobbiamo passare da un “devozionismo eucaristico” ad una “incarnazione eucaristica”. Il nostro compito è dare attuazione alla volontà testamentaria di Gesù, espressa nel capitolo 17 del Vangelo di Giovanni: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (v. 20-23).

Per realizzare questa unità Cristo si dona a noi nell’Eucarestia affinché noi possiamo donarci al mondo. Quando diciamo il nostro Amen ricevendo il suo corpo, in quel momento noi diventiamo cibo eucaristico per l’umanità. La messa non termina forse con “l’ite missa est?” E che cosa è questo se non un mandato missionario a portare a tutti la “buona notizia” che salva, come afferma puntualmente Papa Benedetto XVI nell’Esortazione Apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007, n. 51)?

Interessanti omelie, una buona organizzazione liturgica, dei bei canti, sono specchi per le allodole, se ci fanno credere di “aver assolto il precetto”, semplicemente avendo “partecipato” alla messa. Papa Francesco, sulla scia di Benedetto XVI, invece ci esorta continuamente ad uscire fuori dal recinto e a contaminare il mondo (Messaggio del santo padre Francesco per la giornata missionaria mondiale, 19 maggio 2013).

Chiudo questa mia riflessione con un grande abbraccio a tutti voi. Come dice Papa Francesco, per quanto ci riusciamo, proviamo a vivere bene questo frangente storico come momento di faticosa e dolorosa purificazione, affinché sia possibile portare frutti nel momento del raccolto, che sicuramente verrà.

B.go Podgora (Lt), 23 marzo 2020                                                            don Livio

28 marzo 2020, Amministratore